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Torino Film Festival, tra novità e classici d’essai

tffProsegue la kermesse torinese, alternando novità cinematografiche a rassegne di classici d’essai. Iniziando da questi ultimi, molto interessante e variegata è la pur breve selezione curata da Carlo Verdone Cinque Grandi Emozioni, per sottolineare il suo stato d’animo rispetto alle pellicole proposte, tutte presentate dallo stesso Verdone. Noi siamo andati a (ri)vedere due classicissimi. Anzitutto, Viale Del Tramonto di Billy Wilder del 1950. Capolavoro noir, sarcastico, drammatico, a tratti al limite dell’horror (la scena del funerale dello scimpanzè! O alcune comparsate del maggiordomo Max, magistralmente interpretato dal regista tedesco Erich Von Stroheim). Uno dei capolavori del cinema di tutti i tempi, diretto da un regista che, nel corso della sua lunga carriera, si è trovato perfettamente a suo agio con la commedia, così come con il noir e con le trame drammatiche. Interpretato da un grande William Holden e da una superlativa Gloria Swanson (la scena finale è un vero e proprio manifesto della settima arte), vera star dell’epoca del cinema muto. Una pellicola tesa e claustrofobica, dove tutto, ma proprio tutto è perfetto, che non ha perso un briciolo della sua incisività con il passare dei decenni. Ma anche un attacco frontale ad Hollywood e alla fame di notorietà quale ragione di vita, come all’epoca si era visto di rado. Il film, che parte con la voce narrante di un cadavere immerso in una decadente villa di Hollywood, racconta la storia di uno sceneggiatore di “serie b”, senza ingaggi e senza denaro, che si imbatte in una diva dei film muti degli anni 20, che nutre il folle desiderio di tornare ad interpretare un film, “Salomè” da una sceneggiatura ideata da lei stessa, con il ruolo di protagonista. L’uomo finisce per intraprendere una relazione con la ex star del cinema e a farsi mantenere dalla stessa. Sarà l’incontro con una ragazza, anche lei aspirante sceneggiatrice, a farlo tornare a più sani propositi. Ma la diva non può permettere che “una star venga lasciata” e il finale, come si addice ad un buon noir, non è nient’affatto lieto.

Altro grandissimo film, l’unico italiano della rassegna curata da Verdone, Divorzio All’Italiana (titolo che ispirato la definizione “commedia all’italiana”) di Pietro Germi del 1961, con un superlativo Marcello Mastroianni, un’ottima (e giovanissima) Stefania Sandrelli e una qualità di “seconde linee” (tra cui un quasi esordiente Lando Buzzanca) dirette alla perfezione dal grande regista. La storia è quella di un componente di una famiglia nobiliare siciliana (in deciso declino) che, per sposare la cugina, induce la moglie al tradimento per poi poter vendicare l’onore infamato con l’uxoricidio ed essere condannato ad una pena mite in forza dell’allora vigente delitto di omicidio a causa d’onore. Riuscirà nell’intento dopo non poche peripezie. Una pellicola praticamente perfetta anche questa, come la precedente. E pensare, come ha ricordato anche Verdone presentandola, che all’epoca in cui il film è uscito fu massacrato dalla critica, cosi come le altre commedie dirette da Germi (“Sedotta E Abbandonata” e “Signore E Signori”), roba da non crederci.

Della rassegna dedicata all’horror, invece, fa parte il buon The Tingler  (Il Brivido) di William Castle, del 1959. Il film, con un prologo dello stesso regista (a mò di Hitchcock), racconta la storia di un anatomo patologo (interpretato ad un sempre magnifico Vincent Price) che scopre che dentro ciascun uomo si cela un mostro che si materializza nei casi di forte paura, ma che scompare quanto si urla per il terrore. Le sue ricerche culmineranno con la cattura di un esemplare del mostro quando si imbatte, per caso, in una donna sordomuta. Certo non un capolavoro come i due precedenti, ma un buon prodotto dell’epoca, che si fa ben guardare ancora oggi. Dello stesso regista da riscoprire anche altre pellicole come “Sardonicus”, ma soprattutto “The Homicidial” del 1961, secondo alcuni – all’epoca – una sorta di anti “Psycho”. Non ha avuto la fortuna del film rivale.

Venendo ora alle nuove uscite, abbiamo visto – proiettato all’interno della rassegna Festa Mobile – The Beats di Brian Welsh. Scozia anno 1994, al momento dell’approvazione della legge contro i cosiddetti rave party, due ragazzi, di estrazione sociale diversa tra loro, sono “migliori amici” e si danno ad una notte brava prima che uno dei due si trasferisca. Finiscono in un rave party e si preparano all’età adulta. Girato in bianco e nero, forse vagamente ispirato a “Trainspotting” (ma molto meno caricaturale e macchiettistico) e con un’ottima colonna sonora, il film convince e fa riflettere sugli scontri generazionali e sull’incapacità della società di comprendere tempestivamente le nuove tendenze giovanili. Buono.

E’ sempre una storia su un’amicizia, questa volta tra due giovani donne, Raf , pellicola statunitense-canadese, in concorso, per la regia di Harry Cepka. Raffaella, detta “Raf”, vive a Vancouver, fa un lavoro che non le piace, ha un fidanzato modesto per cui non prova più un grosso trasporto ed è timida ed introversa. Le piace però la musica house e sa fare bene le imitazioni. Un giorno conosce Tal, tutta entusiasmo ed intraprendenza. Questa nuova amicizia la porterà a cambiare stile di vita e a tagliare con il lavoro e il fidanzato, fino a quando scopre che l’amica la rimodella a suo piacimento e si comporta come se potesse comandarla come una marionetta. A tratti quasi documentaristico, non male, ma un po’ più di “cinema” con la C maiuscola (regia, sceneggiatura, eccetera), non avrebbe guastato. Comunque discreto prodotto indipendente, nobilitato dalla bravura della protagonista, Grace Glowicki che interpreta Raf.

Sempre tra i film in concorso abbiamo visto Ms. White Light dello statunitense Paul Shoulberg.  La trama è quella di una giovane, chiusa ed introversa che sa relazionarsi solo con il padre e che sa entrare in empatia con le persone sono nelle ore appena precedenti il momento della morte. Padre e figlia ne hanno fatto un’attività commerciale, con la quale si barcamenano. In questo contesto si inseriscono una giovane ragazza, anche lei “cliente” (che al contrario degli altri, però, non muore), una sessantenne single che, pur rivolgendosi all’agenzia dei due, non pare avere paura della morte e un giovane uomo che fa lo stesso lavoro, seppure con meno convinzione. I tre finiranno per spinger la protagonista (una bravissima Roberta Colindrez, il cui sguardo a volte pare volere “bucare” la cinepresa) ad aprirsi alla vita, facendo i conti con la prematura morte della madre, un trauma che non aveva mai superato. Molto bello.

Nell’articolo precedente vi abbiamo parlato di Tommaso, questa volta invece vi parliamo di The Projectionist, sempre per la regia di Abel Ferrara, film-documentario su Nicolas Nicolau che, partito dalla piccola Cipro alla volta di New York da ragazzino, è finito per aprire svariate sale cinematografiche di ogni tipo (da quelle a luci rosse, a quelle di cinema sperimentale, a quelle “classiche”, a quelle per famiglie) nella città della grande mela, alcune delle quali si è rifiutato di cederle alle multinazionali che gestiscono le catene di multisala oppure a imprenditori interessati a  sostituirle con attività commerciali differenti, finendo per gestire – con un buon successo commerciale peraltro – le ultime multisala storiche di Manhattan. Storia di un imprenditore “illuminato”, intraprendente e coraggioso, che ha saputo coniugare l’amore per il cinema ad uno spirito imprenditoriale che, comunque, non ha mai rinnegato. Molto interessante e un modello da seguire (c’è ne fossero!).

Infine una nota sull’affluenza. Per ora sono stati resi pubblici i dati sul primo fine settimana di proiezioni, che parlano di sostanziale pareggio rispetto all’edizione 2018. Vedremo i dati finali.

 

 

 

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